Tuesday 17 February 2009

Caro Epifani, vuole anche le mutande?

(in Italian, again)

Scrive Giampiero Mughini su Libero, ripreso da Dagospia:

Caro Guglielmo Epifani, da segretario della Cgil lei ha chiesto ieri un aumento delle tasse su coloro che hanno redditi superiori ai 150mila euro lordi annui. Né mi pare lei distinguesse tra redditi professionali (ottenuti con la quantità e la qualità del proprio lavoro) e redditi provenienti, che so io?, dal fatto che tuo padre ti ha lasciato dieci appartamenti da cui ricavi un fitto senza fare una beata acca. Lei parla di "ricchi" in astratto, di gente che deve essere spremuta ulteriormente perché ne siano avvantaggiate le "divisioni" sociali che lei rappresenta.

Spremuta ulteriormente, ossia oltre il 50 per cento di prelievo fiscale attualmente in corso. Sono uno degli italiani che dichiarano al fisco un reddito superiore ai 150 mila euro lordi l'anno, e dunque la sua proposta (o meglio la sua minaccia) mi tocca personalmente. Dirò di più, mi tocca al punto da prenderla come un'offesa al mio lavoro e al mio curriculum professionale. Vengo e mi spiego.

I SOLDI DAL CIELO
Noi non ci conosciamo personalmente. Mi dicono che lei è una persona garbata e ragionevole. Ci siamo intravisti un attimo, il giorno in cui la Camera del lavoro di Roma a Corso d'Italia ospitava la bara con il corpo di Vittorio Foa, e ci siamo scambiati un cenno di saluto. Non so bene se lei abbia mai lavorato in vita sua, fermo restando che io non considero lavoro le riunioni di fazioni e i comizi e quelle altre cose lì di voi politici di professione.

Non che sia meno del lavoro, il vostro fare è un'altra cosa dal lavoro. Del vendere il proprio lavoro a un committente e patteggiarne il prezzo e farselo pagare.
Perché di questo le voglio parlare, a farle capire l'offesa insopportabile che mi viene da uno che vuol prelevare ancor di più del 50 per cento dal reddito professionale.

Il reddito professionale, caro Epifani, non è che ti cada dal cielo. È la foto di quello che hai fatto nella tua vita di lavoro e di quanto stai facendo nel presente. Il mio reddito professionale è la foto di quattro lavori che accumulo, mettendoci tutti i sabati e le domeniche, prendendo non più di dieci giorni di vacanze l'anno, lavorando a Pasqua e a Ferragosto, ma anche alle dieci di sera, quando riscrivo per la decima volta un capoverso del libro che sto per consegnare.

Non una lira del mio reddito viene da partiti, sindacati, logge massoniche, fazioni o "appartenenze" di un qualsiasi tipo. Mi viene da committenti che hanno chiesto il mio lavoro e che sono disposti a pagarlo quanto si addice a un lavoro di buona (forse di ottima) qualità. Se io consegno a Libero un articolo che fa schifo, quell'articolo finisce in un cestino e non mi viene pagato.

Se consegno alla Mondadori un libro che fa schifo, quelli me lo rimandano indietro senza darmi un euro. Se vado in televisione a chiacchierare, e balbetto o le sparo grosse o comunque la linea dell'ascolto va giù in quel momento, per me è bell'e chiusa. Questo lei lo capisce, Epifani? Lo ha mai fatto, di vendere il suo lavoro e di dover combattere a farselo pagare? Lei sa che cos'è una fattura Iva?

È che tu hai lavorato ad esempio il 14 febbraio e dunque emetti fattura il 14 febbraio. Secondo le regole del fisco italiano, è come se tu il 14 febbraio avessi incassato e i soldi della prestazione e l'Iva. Tanto che dopo un mese quell'Iva la devi restituire allo Stato. Ebbene oggi è grasso che cola quando un'azienda ti paga a quattro mesi di distanza dalla tua prestazione.

Lei si è mai trovato in una situazione del genere? Lunedì prossimo, il 16 febbraio, scatta la prima scadenza Iva del 2009. Ovvio che la buona parte dei soldi da me fatturati entro a questo periodo fiscale io non li ho visti né da vicino né da lontano. Non importa, pagherò.

DOVERE DI CITTADINO
Farò il mio doloroso dovere di cittadino e di contribuente. La parola "solidarietà" di alcuni babbei si gonfiano le gote da mane a sera, io la pratico all'essenziale. Versando allo Stato, e dunque in modo che venga redistribuito alle fasce deboli o meno fortunate della società, il 50 per cento del mio reddito, il 50 per cento del cachet che mi sono conquistato in 40 anni di lavoro. Ovvio che quel cachet è molto più alto di quando arrivai a Roma con seimila lire in tasca, nel 1970, e scrissi un articolo che mi costò una settimana di lavoro e che mi venne pagato 11mila lire lorde.

Ma non è che in quell'occasione io chiedessi aiuto alla Cgil o alla loggia P2. Era una regola del mercato: ero giovane e acerbo, loro valutavano che le righe con la mia firma valessero 11mila lire. Così come è una regola del mercato che oggi il mio cachet sia almeno 50 volte superiore. Non mi hanno regalato nulla, caro Epifani. Ci ho messo del mio, nella qualità e nella quantità.

E adesso che nessuno mi rompesse ulteriormenete i coglioni. Lo diceva il comunismo leninista, 50 per cento a te, 50 per cento allo Stato. Non lo vorrei proprio un comunismo epifanista che andasse oltre quel 50 per cento. Buon lavoro.


Aggiungo: quand'e' che la nostra amata classe dirigente capisce che tassare il presente in modo miope e' il miglior modo di tarpare le ali al futuro della nostra societa'?

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